Il multiculturalismo è auspicabile?

 C'è poi anche un altro aspetto del progetto multiculturalista che lo rende passibile di critica: esso riguarda non tanto la sua effettiva attuabilità, quanto l'opportunità, a livello teorico, dei principi che lo sostengono.

Innanzitutto, sottolineare la necessità di riconoscere le "diversità culturali" presenti nella società e di tutelarne l'esistenza può essere di fatto un modo per rimarcare una distanza sociale tra noi e "gli altri" e attuare così, in modo più sottile, una forma di pregiudizio. In altri termini, dire che l'immigrato è "diverso", anche quando gli si riconosce il diritto di manifestare la sua diversità, può diventare un modo velato di dire "non voglio avere a che fare con lui". A tale proposito, lo studioso francese Pierre-André Taguieff (nato nel 1946) parla di razzismo differenzialista, per designare un atteggiamento diffuso nelle moderne società occidentali, consistente nella tendenza ad accentuare le differenze culturali tra le diverse comunità in modo da dichiarare impossibile ogni forma di dialogo. Ma c'è di più. Alla base della nozione di "differenza culturale" sta spesso una visione che potremmo definire "essenzialistica" della cultura stessa. Ci si raffigura cioè le singole culture come entità ontologicamente date e immutabili, che attraversano la storia umana senza modificarsi o mescolarsi tra loro e che si impongono, per così dire, agli individui al di là della loro libera scelta e della loro capacità di interpretarle. In altre parole, così come il vecchio razzismo usava il concetto di "razza" per dividere irrimediabilmente gli esseri umani e discriminarne una parte, allo stesso modo il nuovo razzismo pensa che la "cultura" plasmi l'essere umano con la stessa ineluttabilità di un codice genetico. Eppure oggi sappiamo bene che l'appartenenza a una determinata cultura è sempre più il frutto di un'adesione volontaria, di un percorso che l'individuo compie con tutto il bagaglio delle sue esperienze, conoscenze e aspirazioni, apportandovi elementi personali di scelta e di giudizio; per usare una distinzione cara ai sociologi, essa è uno status "acquisito" e non "ascritto".


L’essenzialismo culturale che abbiamo appena descritto può avere risvolti pericolosi sul piano sociale. L'identificazione della cultura con una sorta di "essenza" che definisce l'identità degli individui allo stesso modo di un DNA porta inevitabilmente alla convinzione che essa debba venire accuratamente difesa e preservata da tutto ciò che può in qualche modo "contaminarla": da questo derivano la paura della differenza e la messa in atto di tutte le strategie possibili per esorcizzarla. In sostanza, l'altro, lo straniero, viene percepito non semplicemente come portatore di una diversa prospettiva con cui confrontarsi, ma come colui che può sottrarre una parte importante di ciò che si è, è pertanto egli diviene immediatamente il nemico", "l'avversario", un soggetto da neutralizzare. L'essenzialismo culturale porta inoltre a identificare troppo sommariamente le persone con il gruppo sociale a cui appartengono. C'è poi un'ultima, pericolosa conseguenza dell'atteggiamento essenzialista. Esso può portarci a difendere incondizionatamente comportamenti e atteggiamenti esibiti da individui e gruppi in nome della cultura a cui appartengono, senza chiederci se essi rappresentino davvero una volontà di libera espressione culturale. 



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